buona la prima

obama, per quanto si impegni, non cambierà il mondo. non da solo, almeno. il mondo, infatti, si cambia da sé, col contributo, conscio o meno, di tutti. ciononostante i primi segnali che arrivano dall’uomo ufficialmente più potente del pianeta sono incoraggianti: segnano un cambio, forse addirittura una vera e propria rottura. cellule staminali. aborto. la vergogna di guantanamo – e la conseguente sospensione dello stato di diritto da parte della più (autocelebrata) forte democrazia espressa dall’occidente a danno di una massa (per quanto originariamente pericolosa) di disperati con turbante e corano (mal digerito) – finalmente chiuderà i battenti entro l’anno. l’iraq, dopo una guerra tanto violenta quanto insensata e ingiustificata (se non dagli interessi più biechi e miopi delle lobbies del petrolio e delle armi), dovrebbe essere restituito al suo popolo (in che condizioni?). il conflitto mediorientale e la risoluzione in tempi stretti della pandemia israelo-palestinese rientra fra i topics principali dell’agenda della casa bianca. rimane l’afghanistan. bel nodo, no? rimane la crisi, poi. come si affronta la crisi? come si deve far fronte a questa voragine che si è aperta sotto ai piedi delle classi medie? perché la crisi, in occidente, tocca tutto l’ampio spettro delle classi medie, questo sarebbe bene dirlo una volta per tutte. piove sempre sul bagnato e sotto al sole non v’è mai nulla di veramente nuovo. le classi deboli di oggi son quelle che fino a ieri navigavano, in modo talvolta pomposo, oltre la linea di galleggiamento. non ancora sicure, all’ancora in un approdo protetto, e neppure più abituate a fare tutti i giorni i conti col problema di metter assieme il pranzo con la cena. non del tutto arrivate e neppure più padrone dell’arte di arrangiarsi, le classi medie, e soprattutto i loro figli, dovranno oggi imparare, con fatica, a riarrangiarsi ogni giorno, correndo dietro a piccoli sogni a tempo determinato. i toni non vorrebbero essere apocalittici, ma è bene non sottovalutare i problemi, gli scenari e i contesti. la crisi la dobbiamo pagare, anche se non vorremmo. anche se non l’abbiamo voluta noi, quella crisi. ma come? come pagarla? come redistribuire il pagamento? come fare in modo che il passato (quello che stiamo passando adesso) ci insegni davvero qualcosa? quali dispositivi di partecipazione, crescita e cambiamento provare a mettere in atto?
a voler fare una prima considerazione, una constatazione molto sommaria, verrebbe da dire che, la nostra società liquida fatta di uomini flessibili e di un’economia del networking che simula conoscenza più di quanta non ne metta davvero in pratica e non ne ricerchi (i tagli parlano chiaro, no?), la nostra comunità che dismette e disloca i suoi comparti produttivi nel terzo e quarto mondo (dove la voracità del capitale prova a saziar meglio sé stessa), sia approdata definitivamente nel regno dei post. è di fatto una postsocietà. e in quanto tale, si direbbe che, a differenza di una generazione fa, essa sia anche (sempre di fatto) una società postsindacale. il gerontosario delle burocrazie sindacali fa il paio con i gerontocrati della politica. si parla in termini vecchi, si difendono vecchi privilegi (se non son di tutti, infatti, non son diritti) e si perpetrano vecchie logiche ed antiquate collusioni. in questo siamo costretti in una disfunzione schizoide. quando terminerà l’anacronismo?
nell’età media le corporazioni catalizzavano il peso e appuntivano la voce dei piccoli artigiani e dei mercanti per trasformarli, peso, voce e bisogni, in azione e contrappeso alla deriva signorile e feudale nei luoghi e nelle corti del potere. in epoca industriale son nate trade union e poi sindacati, intercettavano di nuovo voce, peso (sociale e produttivo) e bisogni degli esclusi. inizialmente si trattava di minatori: quei milioni di uomini che quotidianamente scendevano sotto terra a scavare e ricavare carbone, erano la linfa vitale di quel modello economico e di sviluppo. poi sono arrivati i partiti. la storia è tanto lunga quanto nota, per provare a riassumerla qui. basta evocarla. di certo il novecento non è stato un secolo breve, ugualmente non è stato, in epoca moderna, neppura il secolo peggiore: non in assoluto. la conquista del nuovo mondo, nel 1600, ha prodotto danni comparabili. di sicuro, il novecento è il secolo che ci consegna il mondo nel quale viviamo. è un mondo, visto da occidente, di precariato e precarietà. un mondo in crisi, capace di polverizzare, in poche giornate di chiusure negative di borsa, centinaia, migliaia di miliardi di dollari e decine di migliaia di posti di lavoro. a pagare son sempre i più deboli, specie quando i più deboli non sanno di esserlo; non vogliono saperlo e si illudono, rimuovendo o forcludendo. la realtà, però, ci raggiunge sempre, le cambiali tornano sempre in protesto: è solo una questione di tempo. non si vive in eterno al di sopra delle proprie, reali possibilità.
un tempo c’erano le corporazioni, poi le trade union e i sindacati, poi i partiti di sinistra, ogni volta la lotta, prima, e la tutela, poi, per e dei diritti dei lavoratori si son trasformate in una difesa dei privilegi di alcuni: i diritti, infatti, son quelli garantiti a tutti, riconosciuti a tutti. oggi i sindacati, con le loro logiche, le loro strategie, le loro abitudini e linguaggi, sono i numi tutelari dei (contratti dei) lavoratori insider e a tempo indeterminato, intercettano quei bisogni, danno voce a quelle istanze, vivono di quelle rimesse. ci si chiede, allora, quale sarà il catalizzatore delle istanze, dei bisogni e dei diritti misconosciuti dei tanti (sempre più) precari della nostra postsocietà? quale soggetto sarà in grado di formarsi e costituirsi per intercettare questo peculiare ma socialmente vitale (sos)peso per tradurlo in pratica politica, normativa, legislativa ed attiva nei luoghi dove si pesa, sostanzia ed esercita il potere?
obama non ha steccato la prima, la gelmini è su youtube, il papa pure… ci rimane la crisi. per sfortuna, però, c’è anche chi sta peggio.